In tante immagini sui media, in voluto contrasto rispetto alla drammaticità della situazione, vedo affermata la bellezza del nostro patrimonio artistico, la sua potenzialità. Questo dovrebbe farmi piacere, mi fa piacere. Eppure, a ben guardare, quelle immagini affascinanti del nostro paese sono in qualche modo ingannevoli perché sono presentate, nella loro estrema bellezza, proprio nella mancanza di un elemento che solitamente le caratterizza, cioè la gente, siano gli abitanti, i visitatori, i turisti. Tutti questi in realtà sono elementi che turbano la perfezione che emerge da quelle immagini.
Cosa significa questo: certo può esistere una bellezza senza quella contaminazione, ma non ha senso per noi. Non lo ha dal punto di vista del godimento, della partecipazione, non lo ha neppure dal punto di vista economico. Allora su quella bellezza dobbiamo tornare a ragionare. Quale è il suo senso?
Il capitale culturale
Si è molto parlato del tema bene culturale, in particolare del patrimonio artistico e dello straordinario paesaggio umanizzato che caratterizza il nostro paese. Se ne discute in particolare dagli anni Settanta, ma molto è cambiato da allora. Oggi si parla in particolare di valorizzazione e anche in un’ipotesi di ripresa questo concetto sembra implicito: ma il termine valorizzazione è spesso coniugato in senso prevalentemente economico. Si tratta di beni e da questi beni possiamo, potremo trarre profitti. Forse è così, forse anche questo potrà essere un elemento di ripresa, ma non senza prima porre in dubbio e discutere questo atteggiamento.
Può il nostro paese, come a volte si pensa, essere questo luogo di bellezza da offrire al mondo questo eccezionale capitale sul quale coltivare interessi? Forse, ma io non credo che possa esserci un capitale culturale senza produzione e non intendo solo produzione culturale, intendo proprio produzione.
Il paese ha bisogno di produrre beni, tecnologie, ha bisogno di industria: quei beni, quelle bellezze del passato sono stati prodotti dalla ricchezza, dal lavoro dei nostri antichi. Insieme a questo dobbiamo pensare che quella bellezza che noi oggi possiamo godere è frutto certo di genio eccezionale e di saperi coltivati, ma correlati spesso a poteri assoluti, a sopraffazioni e sfruttamenti. Di fenomeni economici, sociali, religiosi questa affascinante realtà è una sovrastruttura, una meravigliosa sovrastruttura.
La dimensione storica, sociale e antropologica del patrimonio culturale
Considerare così il nostro patrimonio non è una deprivazione di quella bellezza è, credo, una restituzione alla sua dimensione storica, sociale, antropologica.
Ecco allora che sembra opportuno riproporre per il futuro alcune delle speranze coltivate quaranta o cinquanta anni or sono, pur in una rinnovata visione: quel patrimonio storico-artistico-culturale deve essere occasione di conoscenza, di presa di coscienza che deve farsi consapevolezza diffusa, coscienza civica e la sua forza non può partire dall’alto, dalla decisione di un disegno economico che ne legge il valore monetario, ma dal basso, attraverso una presa di coscienza che lo consideri nella sua realtà che è fatta di anche di fatica, di sofferenza, di fede, che è appunto storia di un popolo.
Allora quello stesso popolo può riconoscere la bellezza delle testimonianze del passato, anche paragonandole allo squallore, e la qualità, contrapponendola alla falsità e all’inganno e farne ricchezza, valore sì, allora, assoluto.
Per questo spero di rivedere quello che accadde negli anni Settanta a Bologna, quando la città si riconobbe attorno alla sua Università nel momento dei grandi restauri urbani, o a Palermo quando i giovani riscoprirono la bellezza nei quartieri sfregiati dalla speculazione e ne presentavano i frammenti al pubblico come segni di riscatto e di nuova creatività, o ancor oggi nella Napoli del rione Sanità che riconosce la sua storia e la bellezza, dalla profondità delle catacombe, alla meraviglia barocca delle chiese, come affrancamento dalla miseria culturale della società violenta e disperata.
Il riscatto del patrimonio
In un momento così angosciato con i musei chiusi, le chiese serrate, senza cittadini, senza pubblico, senza turisti, l’immagine forte mi è parsa quella del Papa, nella bellezza assoluta di Piazza San Pietro dove si rivela il genio di Bernini anche nell’abbraccio solitario e mancato del colonnato. Così, al di là di ogni polemica conservativa, è legittimo che il Pontefice abbia voluto accanto a sé l’immagine piena di storia e di fede della Madonna Salus Populi Romani e il Cristo di San Marcello; il crocifisso con la sua forma sofferente sotto la pioggia, memore di tante processioni del passato, riscatta l’immagine museale che troppo spesso può essere riduttiva e ritrova quella comunione con la devozione, la pietà, la cultura popolare non solo religiosamente, ma anche laicamente concentrata su quel simbolo.
È la nostra fortuna, la nostra particolarità: il nostro patrimonio artistico conserva ancora qualche filo, tra i molti tagliati, che lo lega al paese e può ritrovare il nesso con la sua storia, cioè con la popolazione e farsi riscatto, rinnovata coscienza critica, senso civico, anche opposizione se necessario, insomma cultura e desiderio di bellezza.