In piena campagna emiliana, a metà strada tra le colonie romane di Reggio Emilia e Parma, c’è un luogo, un Ort, denominato Campi Rossi, dove da almeno un secolo sorge una casa contadina, non dissimile da tutte le altre che si stagliano nel verde dei campi, tra cielo e terra, tra la corona degli Appennini e la linea piatta e sinuosa del grande fiume Po. Sul suo lato ovest si staglia l’edificio che ospita la Biblioteca e l’Archivio di Emilio Sereni: un luogo, un punto di convergenza dove storia, memoria, cultura, identità e paesaggio convergono.
È uno spazio fisico caricato di intensi valori simbolici, storici, politici e culturali, atto a conservare il prestigioso lascito culturale, archivistico e documentale di Emilio Sereni, uomo politico, intellettuale e storico dell’agricoltura, e sorge in una porzione del podere di Casa Cervi, luogo dall’alto valore identitario per tutto il territorio reggiano.

L’edificio
L’edificio è innanzitutto una biblioteca e contiene, come suggerisce l’etimo greco, dei libri; è uno scrigno di opere, di libri in carta bianca. La struttura ricorda quella del grande fienile della casa colonica, corpo separato dall’abitazione del contadino.
Ha orientamento sud-nord (fronte a sud) e si sviluppa su due piani; la copertura è a due falde in coppi rossi. L’ingresso è laterale, a est, come lo era nelle case coloniche. Si accede da sotto il portico e, dopo aver attraversato un vano rettangolare (una porta morta modernamente rivisitata che divide in due lo spazio), si sale al piano superiore per una scala in mattoni rossi alleggerita dalla struttura in ferro. In fondo lo sguardo spazia sulla campagna e sul Parco ai Campi Rossi. Al piano superiore si ripete la bipartizione dello spazio: il passaggio sulla porta morta fa da collegamento.
Materiali e colori
Tre sono i materiali principalmente impiegati: il mattone, il legno e il vetro. Tre le tonalità ricorrenti: il rosso, il bianco e la trasparenza. In rosso caldo, come la terra cotta, sono i pavimenti del piano terra e dell’area porticata e i coppi della copertura. I pavimenti al primo piano, quelli della Biblioteca e dell’Archivio sono invece in legno: un caldo legno chiaro dalle larghe doghe, stese in senso longitudinale per allungare lo spazio oltre i confini delle pareti a vetrate. Qui l’occhio può spaziare mirabilmente sulla campagna circostante, sulle lunghe file di balloni di paglia e fieno, fino alla siepe di confine che chiude l’orizzonte al di sotto della cornice delle Alpi da una parte e degli Appennini dall’altra. Quasi un orizzonte sacrale che limita lo sguardo e al contempo lo dilata all’infinito, un orizzonte ontologico, da intendere come entità: una linea di demarcazione tra cielo e terra, luogo della loro congiunzione e, al contempo, della loro separazione.
Nello spirito del luogo è anche l’uso del colore bianco per l’intonaco e del marrone per il legno. È il bianco che, come uno squarcio di lenzuolo appeso, irrompe da lontano tra le infinite tonalità di verde della campagna; è il caldo colore del legno degli alberi e delle essenze arbustive che punteggiano il parco e i campi circostanti. Il legno serve per fasciare parte delle pareti interne, per riproporre all’esterno le gelosie e le grosse travi dei fienili, per le capriate della copertura atta a racchiudere il cielo in ambiente terreno. È il cielo del sapere e della scienza, poiché il contenuto è fatto di libri e di documenti; cielo e sapere, tanto grandi quanto lo è il fienile, il più importante degli elementi della casa colonica. Più era grande il fienile, più esso testimoniava la ricchezza in bestiame, la solidità in beni e il progresso fatto dalla famiglia contadina. Qui, oggi, il valore è quello del sapere e della scienza.
Altro materiale, il vetro: un nastro continuo di grandi vetrate percorre l’edificio per tutta la lunghezza, a terra come al primo piano. Se all’esterno la sua grandiosità viene attenuata, all’interno si vive immersi nella natura: alberi, prato, cielo, siepi entrano con prepotenza nelle sale della biblioteca e si riflettono sulle vetrate che fanno da divisoria a uffici e sale di lettura. La luminosità del cielo penetra anche dall’alto, ad opera di un lungo coltello di luce che taglia in due il soffitto: una teoria di lucernari fa scendere il cielo dentro, dilatando ulteriormente lo spazio del soffitto di questa che può essere considerata la navata centrale di una cattedrale della cultura.

Il dialogo tra architettura e paesaggio
Legno e vetro mettono così in perfetta simbiosi l’esterno con l’interno: leggerezza, ariosità e laconicità al contempo unificano un volume imponente, quasi titanico, con il risultato ultimo di una vera trasfigurazione spaziale.
A est, la lunga teoria di pilastri, pilotis a evocazione della regola rinascimentale, ma anche dei pilastri che delimitano i portici di tutte le nostre case contadine, sorregge la copertura del porticato ed esalta l’esterno, portandolo di nuovo dentro: dal cannocchiale che si crea, il paesaggio entra nell’architettura tanto quanto l’architettura entra nel paesaggio, ancora in dialogo con lo spazio circostante.
Un edificio che rispecchia, nell’uniformità dei toni e nell’armonia delle relazioni volumetriche, il pragmatismo quotidiano del mondo contadino che non è privo di idealità ma che, assieme al buon senso e alla vita dura dei campi, costituisce un’attitudine, una virtù di vita, di valori e di saperi.
Qui si parla di terra, di contadini e di lotte per il possesso della terra, di paesaggio agrario «quella forma che l’uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale» (Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari, 1961, 1a ed.). Si vive in un universo denso, come ogni buon contadino avrebbe pensato per il suo fienile o per la sua casa, legata al luogo e al suo contenuto, tanto quanto un albero è legato alla terra dalle sue radici.