Percezione e leggi universali dell’estetica

Piet Mondrian (1872-1944), Composizione

Arte e scienza condividono molte caratteristiche, soprattutto spirito di ricerca, amore per l’immaginazione e la meraviglia, ricerca del senso ultimo delle cose e della vita. Entrambe si nutrono del dubbio. Mentre però le scienze partono dal particolare per cercare leggi universali, l’arte è libera di vagare in mare aperto e si nutre anche del non senso e dell’irrazionale. Solo le accademie usano canoni e cercano valori universali. L’arte utilizza le regole, le leggi, i canoni, anche per superarli, abbatterli. Arte e scienza per lungo tempo sono state associate, gli artisti erano anche scienziati e viceversa, idee ed esperienze non potevano non intrecciarsi.

L’Illuminismo che ha esaltato la razionalità e la ribellione romantica che si è opposta alla ragione hanno separato immaginazione e sapere e attualmente il mondo scientifico sembra aver preso il sopravvento. La scienza continua nella sua ricerca di leggi che spieghino il come e il perché della vita, l’arte si rivolge soprattutto alle emozioni, alla soggettività e, come aveva previsto Heghel (1770-1831), non è più al centro della vita, è diventata fine a se stessa, la cosiddetta arte per l’arte. La scienza cerca di dirimere le ambiguità, l’arte si nutre dell’ambiguità, delle metafore, dei doppi sensi e del nonsenso.

Cervello
Cervello
Neuroestetica

Le neuroscienze hanno riavvicinato queste due branche del sapere, più che altro è stata la scienza a studiare l’arte, e dopo l’intuizione di Duchamp (1887-1968) che il significato viene conferito all’opera non soltanto da chi la crea, ma anche da chi la guarda, ha utilizzato l’arte per studiare il mondo delle percezioni. Anche i concetti astratti come bellezza, amore, piacere, hanno correlati neurobiologici, sono prodotti dell’attività biochimica e fisica del cervello così che il sistema nervoso costruisce ciò che vediamo, attribuisce significato alle percezioni, alle informazione che gli arrivano attraverso i sensi.

Ogni giorno apriamo gli occhi e creiamo il mondo, ci dicono le neuroscienze e pure lo dichiara la poesia come quella di Fernando Pessoa (1888-1935) che con i suoi eteronimi vuole “sentire tutto in tutte le maniere”. La realtà oggettiva non ci appartiene, non ci è possibile conoscerla, abbiamo tante visioni soggettive del mondo.  Alcuni scienziati hanno pensato sia possibile elaborare una teoria scientifica dell’esperienza artistica, ritenendo che ci possano essere principi estetici universali come esistono i principi universali della fisica. Semir Zeki (1940-) ha coniato il termine neuroestetica cercando le basi biologiche dell’esperienza estetica e Vilayanur Ramachandran  (1951-) ha descritto nove leggi universali dell’estetica.

Zeki ha studiato in primo luogo la percezione visiva e parla di “concetti ereditari” legati a strategie di funzionamento del cervello che non possiamo eludere perché codificate dai geni e universali. Inserisce in questi la costanza percettiva, la costanza cromatica, il riconoscimento dei volti, il riconoscimento delle linee rette verticali e orizzontali, la simmetria.  Attivare questi sistemi produce la stimolazione dei centri del piacere e della gratificazione, sarebbe il motivo per cui troviamo così piacevoli le opere di Mondrian (1872-1944).

Allo stesso modo Ramachandran trova che i circuiti neurali dei nostri centri visivi incarnino leggi universali che sono anche leggi dell’estetica. Sono tutte strategie sviluppate dall’evoluzione nel cervello per favorire la sopravvivenza dell’individuo nella foresta primordiale quelle che questo autore ritiene utilizzate a livello universale dal processo artistico. Tra queste il raggruppamento percettivo: aiuta a individuare un oggetto parzialmente nascosto, serve a sconfiggere la mimetizzazione e a vedere un animale coperto in parte dalla vegetazione.

L’effetto peak shift riguarda, invece, la reazione del cervello a stimoli iperbolici e spiega perché le caricature ci piacciono tanto, perché vi è catturata e esaltata la vera essenza, il rasa, termine sanscrito che significa cogliere il vero spirito di una cosa. Già queste sono sufficienti a stimolare alcune considerazioni. La scienza utilizza l’arte, soprattutto la percezione dell’opera artistica, per capire se stessa. Queste sono più che leggi della percezione, valide quindi anche al di fuori del processo artistico, dei comportamenti preferenziali utilizzati dal cervello in base a conoscenze inconsce evolutivamente apprese. Non è possibile trarne leggi universali e quindi generalizzazioni, sono accompagnate da tante eccezioni che vengono, a loro volta, spiegate in termini scientifici. Possono essere utilizzate per spiegare alcuni aspetti della percezione dell’opera d’arte, ma non sono valide per la globalità del processo creativo artistico.

Infatti, Ramachandran porta come esempio delle sue tesi il fatto che “Un colore bianco su una tela bianca non sarebbe certo chiamato arte” quando, invece, Kazimir Malevic (1879-1935) dipinse nel 1918 un “quadro bianco su bianco” e un “Quadrato nero” che è diventato un’icona dell’arte moderna.

Kazimir Malevič (1879-1935), Quadrato bianco su fondo bianco, 1918
Kazimir Malevič (1879-1935), Quadrato bianco su fondo bianco, 1918
L’arte linguaggio e strumento comunicativo

L’arte ci fornisce una testimonianza del funzionamento del cervello e quindi può essere soggetta allo studio scientifico, ci può aiutare a capire l’uomo e le complesse dinamiche del suo sistema nervoso, difficilmente lascia spazio a generalizzazioni scientifiche. Per Immanuel Kant (Prolegomena) (1724-1804), “la mente non deriva le sue leggi a-priori dalla natura, ma a queste le assegna” ed è questo che permette l’estetizzazione moderna della realtà per cui tutto è arte. Umberto Eco (1932-2016) aveva già asserito che “Le estetiche tradizionali erano in fondo estetiche a struttura aprioristica e perciò stesso normativa. Caratteristica dell’estetica contemporanea ci appare invece quella di non voler essere scienza normativa né di partire da definizioni aprioristiche, di aver rinunciato insomma a fondare le possibilità di una attività umana su presunte strutture immutabili dell’essere e dello spirito.” Il discorso comprende anche le ipotesi di Zeki e Ramachandran.

L’arte utilizza la scienza non per cercare leggi universali, ma per sondare l’inconscio collettivo o individuale e utilizzare, spesso in modo non cosciente, quelle forme iconiche che Aby Warburg (1866-1923) chiama forme del pathos, che si ripresentano periodicamente nei secoli, con vestito nuovo, e che rappresentano sia le forme archetipe del mito che le forze dionisiache schiacciate o mascherata dalla prevalenza della visione apollinea della vita. Viene quindi spontanea una considerazione: perché si devono ricercare leggi universali dell’operato artistico utilizzando leggi della percezione aspecifiche mediate dall’evoluzione e altrettanto valide in ogni tipo di percezione della vita quotidiana?

Che bisogno abbiamo di creare categorie scientifiche che stanno strette nel campo dell’arte, linguaggio e strumento comunicativo che si fa novità e crescita proprio quando riesce a superare limiti e vincoli e anzi si nutre di contraddizioni, ambiguità, visioni diverse, mancanza di certezze? Termino con  le conclusioni di  Vincenzo Trione (1972-) nel suo volume L’opera interminabile dove sono descritte tante varianti alla percezione di cosa sia arte. “Mi piace pensare a questi artisti proprio come a mercanti di nuvole.”

Marco Ruini

Marco Ruini

Neurologo e neurochirurgo. Fondatore e responsabile del Centro Medico Anemos di Reggio Emilia.