Brand museale

La comunicazione dei musei: le contraddizioni e qualche proposta

Al termine di un corso che seguii nel 1990 la California University di San Francisco organizzò una piccola gita nella vicina Berkeley, giusto oltre il ponte. Il gruppo era formato da europei e giapponesi, e tutti rimanemmo eufemisticamente increduli davanti al trionfalismo di una docente, in ammirazione al cospetto di un campanile simile a quelli che si trovano nei paesi più piccoli e modesti del Veneto. All’entusiastica esclamazione “è molto antico, pensate, ha quasi novant’anni”, io, cogliendo diversi livelli di ironia nei volti degli astanti, non trattenni un commento: “È ora di controllare l’olio”.

Ma poi, pur da estraneo alla cultura museale, capii che avevano ragione loro.

Mi vennero in mente i musei dello Smithsonian Institute, che avevo visitato durante il primo viaggio negli Stati Uniti. Abituato, in Italia, a un’orgia di antichità, troppo spesso dimenticate in magazzini e mai esposte, mi sembrava incredibile che edifici immensi e innovativi, in fila davanti all’obelisco dedicato a George Washington, nella capitale federale, ospitassero temi normalmente considerati non museali, come le insegne al neon, contemporanee o vintage.

Cultura statica o narrazione appassionante?

Da giornalista fedele alla descrizione di Longanesi (uno che descrive benissimo quello che non sa)  misi a confronto concetti banali come i musei acromatici italiani, che contenevano tesori inestimabili, con quelli spettacolari di chi deve valorizzare oggetti di minore pregio e attirare fette di popolazione molto più ampie invogliandole con messaggi più immediati. E mi chiesi, innanzitutto, se la parola cultura avesse tanti significati, così distanti da non varcare gli oceani. Oppure se si tratti di sensibilità diverse, magari saturazione di beni inestimabili, che rendono indifferente chi vive a Roma e non ha mai visitato il Colosseo, o a Firenze: Uffizi, questi sconosciuti.

Da qui, la seconda domanda che mi sono posto è se non sia il caso di impegnarsi in una vera e propria rivoluzione nel modo di diffondere la comunicazione museale che riguarda migliaia di realtà molto diverse, per dimensioni, importanza, peculiarità. Una svolta coraggiosa per trasformare la cultura statica in una narrazione appassionante, facendola entrare nel quotidiano.
Di molti, non certo di tutti.

Le opportunità di televisione e internet

Comunicatori e addetti ai lavori hanno punti di vista diversi, talvolta molto distanti. Chi dirige un museo o una galleria, spesso, diffida di metodi che attingono a logiche di mercato. Il comunicatore, spesso, rischia la banalizzazione per arrivare dritto al cuore, e, perché no, alla pancia della gente, abbattendo ostacoli altrimenti inamovibili.

Qualcuno teme che il mezzo televisivo sia la versione moderna di una vecchia massima di Marcello Marchesi: “La cultura in dispense dispensa dalla cultura”. Lo schermo può introdurre, invogliare, ma spingere alla frequentazione dei musei non è automatico. Le reti televisive si barcamenano fra le necessità di share elevato che garantisca il guadagno (in alcuni casi, la sopravvivenza) e la credibilità di foglie di fico culturali che ne attestano una generica utilità, facendo da contrappeso alle inevitabili cadute di stile di molti programmi.

Tuttavia, internet e la stessa televisione possono offrire altre opportunità interessanti: ad esempio, le visite virtuali di alcuni musei, durante il lockdown per il Covid, hanno creato spunti straordinari, oltretutto sfruttando tempo libero e disponibilità del pubblico. Non è escluso che questo sia un primo passo per instradare molte persone verso visite che non avrebbero mai pensato di effettuare. Dunque, proseguire e diffondere queste iniziative anche fuori dall’emergenza può essere un’idea non trascurabile.

La lotta impari tra patrimonio radicato e consumismo

Ma prima bisogna capire quale risultato si vuole perseguire e con quanto impegno. In sostanza, quanto si crede nella necessità di rendere popolare quello che ora è, a torto, considerato elitario o, comunque, spesso di nicchia. Se le politiche nazionali e locali decidessero di impegnarsi (personalmente ho ragione di dubitarne) le strategie andrebbero affidate a comunicatori, per tradurre e filtrare il pensiero degli addetti ai lavori e trasmetterlo inventando gradevoli coinvolgimenti.

In tutti i campi i pubblicitari tendono a pensare che la conoscenza profonda della materia renda un po’ più difficile, agli addetti ai lavori, individuare le curiosità della gente, soprattutto le più banali, e aprire spiragli che facciano entrare la cultura, l’arte, e quale cultura, quali arti, in menti distratte da tanti nulla coloratissimi.

Inoltre, poiché in questa epoca tutto è brand, tutto è business, la lotta titanica fra il patrimonio radicato e il consumismo è impari e a handicap.

Le mostre di grande attrattività

Un altro tema da approfondire è costituito dalle mostre temporanee che attirano più dei musei, anche per la loro occasionalità e, in particolare, eventi che mitizzano un singolo quadro, creando più moda che cultura. Penso al tour della Ragazza con l’orecchino di perla di Johannes Vermeer (1632-1675), con lunghe file in tutto il mondo. Sono ottime iniziative che polarizzano l’attenzione, ma rischiano di creare scale di valori distorte, restringendo il mito e anche il semplice interesse a pochissimi esempi, non sempre i più significativi. È innegabile che iniziative come questa creino molto clamore. Ma la diffusione della cultura museale deve seguire una politica, per quanto possibile, armoniosa, con differenze sostanziali fra le istituzioni di grande prestigio e le piccole realtà, spesso trascurati scrigni delle meraviglie. Che raramente sognano di attirare appassionati da tutto il mondo.

Johannes Vermeer (1632-1675), La ragazza con l’orecchino di perla, 1665 circa, olio su tela. L’Aia, Gabinetto Reale di pitture Mauritshuis
Qualche idea per il futuro

E se il globo è comunque forse troppo grande, la dimensione europea potrebbe essere percorsa anche in collaborazione con quelle compagnie aeree (la discussa Ryanair su tutte) che attuano politiche capillari, ricevendo notevoli contributi economici e servizi aeroportuali in cambio di importanti numeri di passeggeri su scali minori: in molti casi potrebbe essere possibile lanciare piccole campagne stile orecchino di perla su oggetti di grande interesse candidabili a divenire cult. A rimorchio, può essere valorizzato l’intero museo e, con un po’ di ottimismo, una zona più vasta. Naturalmente, questi progetti prevedono ristrutturazioni, ammodernamenti e percorsi mirati a connotare l’oggetto protagonista, inserendolo in una storia avvincente insieme con il resto dell’esposizione.

Ed è certo che i musei, soprattutto quelli delle città di provincia, devono sfuggire alla logica che li vede troppo spesso come potentati individuali e impenetrabili per entrare in una sincronia di rete che in tempi medi può dare buoni risultati.

Ma questo è un altro problema ed esula dalla comunicazione, pur essendo una premessa essenziale.

Gian Stefano Spoto

Gian Stefano Spoto

Gian Stefano Spoto, giornalista e autore televisivo. È stato, fra l’altro, inviato speciale, vice-direttore di Raidue e Rai Internazionale. Ha scritto cinque libri: l’ultimo, Deserto bianco (Graphofeel editore) sul Medio Oriente dalla guerra di Gaza ai giorni nostri.