Lo studio delle opere e della poetica di Emilio Scanavino (1922-1986) non poteva che condurre a una riflessione sulle ultime aperture dell’estetica all’ambito del vissuto neurofisiologico del cervello. L’atto del guardare sottende infatti una forma della visione che non è esclusiva della vista, ma è multimodale, un’attivazione sinestetica di tutti i sensi capace di coinvolgere anche la sfera emozionale e la dimensione della relazione intenzionale.
Le neuroscienze cognitive oggi mostrano come l’intelligenza umana sia strettamente legata alla corporeità degli individui e all’esperienza. Una ricerca artistica dove la dimensione tattile dei materiali, la significazione del segno e del gesto, l’amplificazione semantica dell’orma, della lacuna, dell’impronta, la ripetizione di forme come archetipi, qual è stata quella di Scanavino, non poteva che nutrire e fomentare riflessioni sulla complessità del sistema cervello-corpo e mente, sui processi della cognizione, percezione e azione nell’agire espressivo. Tali presupposti consentono di leggere l’opera di questo artista da una prospettiva leggermente spostata dal centro, con il fine precipuo di promuovere un dialogo e una convergenza di visioni sui processi di produzione e interpretazione delle arti.
Simulazione incarnata e atto creativo
L’identificazione dei neuroni specchio e le prime riflessioni sulle basi neuronali capaci di determinare le reazioni simulative, come risposta alle opere d’arte, risalgono agli anni novanta del secolo scorso. È ormai chiaro che il sistema dei neuroni specchio (MNS) si trova localizzato nella corteccia premotoria ventrale e nella corteccia parietale posteriore e che i sistemi specchianti reagiscono di fronte a un’azione osservata o immaginata, soprattutto se orientata a un obiettivo, coinvolgendo le medesime aree attivate durante l’esecuzione dell’azione in prima persona.
Ciò è stato riscontrato anche nel caso delle emozioni: ad esempio, guardare un volto disgustato comporta l’attivazione delle aree cerebrali specializzate nell’emozione del disgusto. Le implicazioni inducono a una rinnovata riflessione sui rapporti empatici tra arte e fruitore in termini di simulazione incarnata. Gli stati somatici descritti e implicitamente deducibili nei dipinti o nelle sculture coinvolgono quindi a livello profondo l’osservatore, attivando visceralmente risposte empatiche e sensoriali.
L’osservazione di superfici levigate piuttosto che scabre provoca, ad esempio, l’attivazione della corteccia somatosensoriale, come se il nostro corpo venisse sollecitato da una stimolazione sensoriale tattile. C’è poi il fenomeno dell’affordance, secondo il quale il manufatto contiene intrinseche proprietà manipolatorie suggerite dalla forma. Il fare artistico si configura quindi come una istintiva sperimentazione sul cervello visivo. Il programma motorio alla base dell’atto creativo viene evocato nel cervello dell’osservatore che, come un novello demiurgo, ripercorre il processo di origine dell’opera attraverso la simulazione dell’atto.
Parlando di Scanavino, già Renzo Guasco, nell’ormai lontano 1987, rilevava come la sua arte possa indurre a «sostituirsi al pittore (sforzarsi, illudersi di sostituirsi al pittore; ché si tratta sempre di una sostituzione puramente immaginativa) cercando di ripetere il processo creativo? Guardare i segni di Scanavino come si guardano le fotografie delle incisioni rupestri, le pitture delle caverne, gli ideogrammi orientali, che ci affascinano anche se il loro significato ci è ignoto» (R. Guasco, in C.M. Accame, Scanavino. Evocazione e presenza, Milano: Mazzotta,1987, p. 150).
Segno e latenza
Il segno pittorico di Scanavino srotola gomitoli aggrovigliati e inestricabili, accosta segmenti, genera lacerti di forme e irruzioni di sangue fino a che, poco a poco, la struttura prende forma e l’immagine, nella sua apparizione, rivela il senso profondo dell’esistere.
L’immagine nella sua produzione appare rilevatrice di una latenza che si serve del gesto significatore: l’impronta, il risultato dell’atto ancestrale e istintivo di premere, sottrarre, aprire, sventrare. La mancanza, nelle sue opere, si configura come buco, traccia, sudario, penetrazione, fecondazione, grembo, rifugio, ma anche prigione, tomba, vuoto, chiusura. Temi ancestrali, come l’orma di un piede o l’impronta di una ruota, che richiamano riti di antica memoria.
La ricerca di simboli nel mondo circostante è infatti, per Scanavino, la condizione necessaria perché la significazione possa avvenire: “avvolgere uno spago e il risultato dell’operazione è un gomitolo. Svolgerlo e riottenere uno spago”, ma il filo si può anche avviluppare e formare una matassa, un groviglio. Lo spago e il legare, l’oggetto e l’azione: non è soltanto una questione di relazioni tra significato e significante. L’artista pare essere alla ricerca dell’essenza, il gesto mimico che lascia la traccia, che incide la linea, la forma, il grafema. Il segno ha in sé il divenire di questa azione intenzionale, dispiegata nella temporalità.
Il segno è un’immagine dialettica
Di fronte alle opere di Scanavino il nostro cervello è portato a ripercorrere il segno che traccia, a ricercare il filo di spago nella sua scorrevolezza e resistenza, a simulare il gesto rotatorio che intrappola, racchiude, avviluppa. Ma cosa rimane in fondo al viluppo, al buco, nel cuore della matassa, al di là di una soglia? Cosa trattiene l’impronta, cosa tradisce il segno? La mancanza.
La traccia è ciò che rimane, la materializzazione della latenza. Per questo, il segno è sempre un’immagine dialettica, pertanto sintomatica. Il segno si traduce così in traccia di inquietudine, di complessità, di analisi esistenziale. Il significato sta nel segno che si esprime con nodi, grovigli, reti, graticole, tagliole, scarti e rotture improvvise, nei fondi infuocati o nei grigi e neri, dove la traccia reca in superficie evocazioni lontane, profonde, così ancestrali che la memoria sembra non esser più in grado di decifrare. La matrice, la ripetizione seriale del modulo, diviene necessità dell’immanenza, singolare intreccio di spazio e tempo in cui la vita sembra palpitare con frammenti magmatici, sterpi, spaghi, reticoli di ferro, radici, zolle, pane, finestre, tutti residui trasportati dalla coscienza.
Il processo creativo
Lo stesso Scanavino parla della produzione artistica in termini di embodiment: «Per me il quadro è una specie di ribaltamento… aprire il tuo corpo e proiettare la tua anima fuori… Questo mi ha portato a stare sempre troppo sulla tela. Non riuscivo ad allontanarmene. Vivevo il quadro in maniera corporea» (in G.M. Accame, Scanavino. Disegni e scritti inediti, Bergamo: Lubrina, 1990, p. 173).
Egli descrive il processo creativo nei termini di somestesia, percezione totale del corpo nel corpo, divaricazione, squarciamento, contatto sensuale. L’opera diviene quindi mezzo di contatto, soglia osmotica tra il dentro e il fuori, tra il tu e l’io: «Porgo la mia mano nella speranza che essa sia stretta da un’altra: porgo la mia mano con la speranza che in essa vi sia deposto qualcosa» (In G.M. Accame, 1990, p. 173).